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Documenti

Direttorio Diaconi

 

Cerimoniale Episcopurum

 

Le vesti liturgiche del Diacono

    

Caerimoniale Episcoporum

 

La Santa Messa presieduta dal Vescovo è sempre tipica e il rituale descritto nelle rubriche descritte è quello che si deve seguire con i debiti adattamenti in ogni celebrazione, quindi anche quando presiede un presbitero.

 

RITI DI INTRODUZIONE

72.  Due accoliti si presentano al vescovo con l'incensiere e la navetta, o un accolito con entrambi, e portano l'incensiere con i carboncini accesi nella mano sinistra e la navetta con l'incenso ed il cucchiaio nella mano destra. (Cerimoniale dei Vescovi ed 1886).

 

73. Dall'accolito il diacono prende la navetta aperta a metà con il cucchiaio in essa e presenta la navetta al vescovo. Il vescovo prende il cucchiaio e tre volte tira fuori l'incenso o lo mette nell'incensiere tre volte. Dopo ciò e dopo aver restituito il cucchiaio al ministrante, il vescovo con la mano destra traccia un segno di croce sull'incenso messo nell'incensiere (C.V.1886).

 

74. Il diacono ridà la navetta all'accolito e da lui prende l'incensiere che presenta al vescovo mettendo nella mano sinistra del vescovo. la parte superiore della catena dell'incensiere e l'incensiere nella mano destra. (C.V. 1886).

 

75. Colui che incensa tiene la parte superiora della catena dell'incensiere nella mano sinistra, la parte inferiore vicino all'incensiere nella mano destra, in modo che l'incensiere può oscillare avanti ed indietro facilmente. Colui che incensa deve adempiere a questa compito con  contegno solenne e dignitoso, senza muovere la testa o il corpo mentre incensa, tenendo la mano sinistra con la parte superiore della catena vicino al petto e muovendo il braccio destro avanti ed indietro con colpi misurati.  (C.V. 1886).

 

84. Il rito dell'incensazione esprime la venerazione e la preghiera, come è detto nel salmo 140 e nel libro dell'Apocalisse 8,3.

 

85. L'incenso da infondere nel turibolo sia puro e di soave odore, se si aggiungono altri elementi la loro quantità non superi quella dell'incenso.

 

86. Nella messa stazionale del Vescovo l'incenso viene usato:

a) durante la processione di ingresso;

b) all'inizio della messa, per incensare l'altare;

c) nella processione per la proclamazione del Vangelo (per incensare l'Evangeliario);

d) nella processione di offertorio, per incensare le offerte, l'altare, la croce, il vescovo, i concelebranti e il popolo;

e) durante l'elevazione dell'ostia e del calice dopo la consacrazione.

Nelle altre messe l'incenso si può usare secondo l'opportunità.

 

87. Inoltre l'incenso viene usato secondo le prescrizioni dei libri liturgici:

a) nella dedicazione della Chiesa e dell'Altare;

b) nella benedizione del Santo Crisma e degli olii;

c) nell'esposizione del SS. Sacramento con l'ostensorio;

d) nei funerali.

 

88. Secondo l'uso, l'incenso viene usato nella processione della festa della Presentazione del Signore, nella Domenica delle Palme, nella Messa della Cena del Signore, nella Veglia Pasquale, nella Solennità del Corpo e Sangue del Signore, nella solenne traslazione delle reliquie dei Santi, e in generale nelle processioni fatte con una certa solennità.

 

89. Nella celebrazione solenne delle Lodi mattutine e dei Vespri si può fare l'incensazione dell'altare, del Vescovo e del popolo mentre viene cantato il cantico evangelico (Benedictus o Magnificat).

 

90. Il Vescovo, per infondere l'incenso, siede alla cattedra o altra sede, mentre stanno in piedi il ministro e il diacono che porge la navicella; il Vescovo benedice l'incenso con un segno di croce senza nulla dire. Il diacono prende il turibolo dal turiferario e lo porge al Vescovo.

 

91. Prima e dopo l'incensazione si fa l'inchino profondo alle persone e a ciò che viene incensato, eccetto l'altare e le offerte per il sacrificio della Messa.

 

92. Si incensa tre volte: il SS. Sacramento, la reliquia della Santa Croce, le immagini del Signore solennemente esposte, le offerte, la croce dell'altare, il libro dei Vangeli, il Cero pasquale, il Vescovo o il presbitero celebrante, le autorità civili che per il loro ufficio sono presenti alla celebrazione, il coro, il popolo, il corpo del defunto. Due volte si incensano le reliquie e le immagini dei santi esposte a pubblica venerazione.

 

93. L 'altare viene incensato in modo semplice, una volta sola, in questo modo:

a) se l'altare non è addossato alla parete, il Vescovo lo incensa girandogli attorno;

b) se l'altare è addossato alla parete, il Vescovo lo incensa prima dalla parte destra, e poi dalla sinistra. La croce se è sull'altare viene incensata prima dell'altare, se è acconto quando il Vescovo passa accanto ad essa.

Le offerte vengono incensate prima dell'altare e della croce.

 

94. Il SS. Sacramento si incensa in ginocchio.

 

95. Le reliquie e le immagini esposte a pubblica venerazione sono incensate dopo l'altare, nella Messa, soltanto all'inizio della celebrazione.

 

96. Il Vescovo, sia all'altare che alla cattedra, per l'incensazione sta in piedi e senza mitra a meno che non la indossi già.

I concelebranti sono incensati dal diacono tutti insieme. Poi egli incensa il popolo dal luogo più adatto. I canonici con non concelebrano e altri che eventualmente si trovano nel coro sono incensati insieme al popolo, se l'uso locale non dispone diversamente. Questo vale anche per i Vescovi che fossero eventualmente presenti.

 

97. Il Vescovo che presenzia senza concelebrare la Messa, viene incensato dopo il celebrante e i concelebranti. Dopo il Vescovo, secondo l'uso in vigore, viene incensato il Capo dello Stato che, in forza del suo ufficio, partecipa alla celebrazione.

 

98. Il Vescovo non faccia monizioni né dica le orazioni prima che sia terminata l'incensazione.

 

LA LITURGIA DELLA PAROLA

137. Al termine dell’Orazione colletta, il lettore si reca all’ambone e , quando tutti sono seduti, propone all’ascolto   la prima lettura. Alla fine canta o dice Parola di Dio, e tutti rispondono con l’acclamazione Rendiamo grazie a Dio.

 

138. Il lettore scende dall’ambone; tutti meditano brevemente in silenzio le parole che hanno ascoltate. Poi il salmista o cantore, oppure lo stesso lettore, canta o dice il salmo in uno dei modi previsti.

 

139. Il secondo lettore propone la seconda lettura all’ambone, come sopra, mentre tutti stanno seduti e ascoltano.

 

140. Segue l’alleluia o un altro canto, secondo quanto richiesto dal tempo liturgico. All’inizio dell’alleluia tutti si alzano, tranne il Vescovo. Il diacono che deve proclamare il vangelo, profondamente inchinato davanti al vescovo, domanda la benedizione dicendo sottovoce: Benedicimi, Padre. Il vescovo lo benedice dicendo: Il Signore sia nel tuo cuore e sulle tue labbra, perché tu possa annunziare degnamente il suo vangelo: nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Il diacono fa il segno della croce e risponde: Amen. Allora il Vescovo, deposta la mitra, si alza. Il diacono va all’altare, mentre vi si recano anche il turiferario con il turibolo fumigante e gli accoliti con i ceri accesi. Il diacono, dopo essersi inchinato all’altare, prende con riverenza il libro dei vangeli e, omettendo altro saluto all’altare, si reca all’ambone portando solennemente il libro, preceduto processionalmente dal turiferario e dagli accoliti con i ceri.

 

141. All’ambone il diacono,a mani giunte, saluta il popolo. Alle parole Dal Vangelo secondo N. segna con il pollice destro tracciando una piccola croce il libro e poi se stesso sulla fronte, sulla bocca e sul petto, cosa che fanno anche tutti gli altri. Allora il vescovo prende il pastorale. Il diacono incensa il libro e proclama il Vangelo, che tutti ascoltano in piedi e, di norma, rivolti verso di lui. Terminata la proclamazione, porta il libro da baciare al Vescovo, che in segreto dice: La parola del vangelo cancelli i nostri peccati, oppure lo stesso diacono bacia il libro dicendo in segreto le medesime parole. Infine il diacono e gli altri ministri ritornano al loro posto. Il libro dei vangeli viene portato alla credenza o in un altro luogo adatto.

 

142. Tutti siedono e il vescovo tiene l’omelia, convenientemente con mitra e pastorale e seduto in cattedra, a meno che non sia più adatto un altro luogo, così che possa essere visto e ascoltato comodamente da tutti. Conclusa l’omelia, si può rimanere per un po’ in silenzio, secondo l’opportunità.

 

143. Dopo l’omelia, se non deve svolgersi un rito sacramentale o di consacrazione o di benedizione secondo quanto stabilito dal Pontificale o Rituale romano, il vescovo depone la mitra e il pastorale, si alza e, se previsto, viene cantato o detto il Credo, mentre tutti stanno in piedi. Alle parole "E per opera dello Spirito Santo…" tutti si inchinano; nelle feste della Natività e dell'Annunciazione del Signore invece si inginocchiano.

 

144. Terminato il Credo, il vescovo in piedi alla cattedra, a mani giunte, con una monizione invita i fedeli alla preghiera universale. Quindi uno dei diaconi o un cantore, o un lettore, o un altro, dall'ambone, o da altro luogo conveniente, propone le intenzioni, mentre il popolo partecipa con la risposta. Alla fine il Vescovo, con le mani allargate, conclude la preghiera con un'orazione.

 

LA LITURGIA EUCARISTICA

145. Ultimata la preghiera universale il vescovo siede mettendo la mitra. Allo steso modo siedono i concelebranti ed il popolo. Si esegue il canto all'offertorio, che si protrarrà fino a quando i doni saranno stati deposti sull'altare. I diaconi e gli accoliti pongono sull'altare il corporale, il purificatoio, il calice ed il messale. Quindi vengono portate le offerte. E' opportuno che i fedeli manifestino la loro partecipazione recando il pane e il vino per la celebrazione eucaristica e altri doni con i quali sovvenire le necessità della Chiesa e dei poveri. Le offerte dei fedeli sono accolte dai diaconi o dal Vescovo in un luogo opportuno. Il pane e il vino vengono portati dai diaconi all'altare, i doni per i poveri invece in un luogo adatto. Già predisposto.

 

146. Il vescovo va all'altare, depone la mitra, riceve dal diacono la patena con il pane e con tutt'e due le mani la tiene un poco alzata sull'altare, recitando in segreto l'apposita formula di benedizione. Quindi depone la patena con il pane sopra il corporale.

 

147. Intanto il diacono versa nel calice il vino e un po’ di acqua, dicendo: "L'acqua unita la vino sia segno della nostra unione con la vita di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana". Poi presenta il calice al Vescovo, il quale con entrambe le mani lo tiene un poco alzato sopra l'altare, recitando in segreto la formula stabilita. Quindi lo depone sopra il corporale e il diacono, secondo l'opportunità, lo copre.

 

148. Poi il Vescovo inchinandosi al centro dell'altare, dice in segreto: "Umili e pentiti accoglici, Signore: ti sia gradito il nostro sacrificio che oggi si compie dinanzi a te".

 

149. Si accosta il turiferario, il diacono porge la navicella, il vescovo pone l'incenso nel turibolo e lo benedice; poi lo stesso vescovo riceve il turibolo dal diacono e, accompagnato da lui, incensa le offerte, nonché l'altare e la croce, come all'inizio della Messa. Il diacono stando a lato dell'altare incensa il vescovo, in piedi e senza mitra, poi i concelebranti e in fine il popolo. Si eviti che l'ammonizione "Pregate fratelli…" e l'Orazione sulle offerte siano proclamate prima dl termine dell'incensazione.

 

150. Ricevuta l'incensazione il vescovo sta in piedi a lato dell'altare senza mitra e gli si avvicinano i ministri con la brocca dell'acqua, il bacile e il manutergio; il vescovo si lava le mani e le asciuga. Se è opportuno uno dei diaconi toglie l'anello al vescovo quando si lava le mani, mentre dice in segreto: Lavami, Signore, da ogni colpa, purificami da ogni peccato. Dopo aver asciugato le mani e aver rimesso l'anello, il vescovo torna al centro dell'altare.

 

151. Il Vescovo, rivolto verso il popolo, allargando e congiungendo le mani, invita il popolo alla preghiera dicendo: Pregate, fratelli,perché il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.

 

152. Dopo la risposta "Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio..." il vescovo, a mani allargate, canta o dice l'Orazione sulle offerte. Alla fine il popolo acclama: "Amen".

 

153. Il diacono prende lo zucchetto del vescovo e lo consegna al ministro. I concelebranti si avvicinano all'altare e si fermano attorno ad esso, in modo tale tuttavia da non essere d'impedimento all'esecuzione dei riti, e che l'azione sacra possa essere vista bene dai fedeli. I diaconi stanno in piedi dietro ai concelebranti, così che, quando ve ne fosse bisogno, uno di loro possa prestare servizio al calice o al messale. Nessuno tuttavia rimanga fra il vescovo e i concelebranti, o fra i concelebranti e l'altare.

 

154. Il vescovo inizia con il prefazio la preghiera eucaristica. Allargando le mani canta o dice: "Il Signore sia con voi". Mentre prosegue: "In alto i nostri cuori", alza le mani; e, a mani allargate, soggiunge: "Rendiamo grazie al Signore nostro Dio". Dopo la risposta del popolo "È cosa buona e giusta" il vescovo prosegue il prefazio; al termine, a mani giunte, assieme ai concelebranti, ai ministri e al popolo, canta: "Santo, santo, santo..."

 

155. Il vescovo prosegue la preghiera stabilita secondo quanto prescritto nn. 171-191 di "Principi e norme" del Messale Romano e secondo le rubriche contenute nelle singole preghiere. Le parti recitate insieme da tutti i concelebranti, a mani allargate, devono essere pronunciate in modo che i concelebranti le proferiscano sottovoce e che la voce del vescovo possa esser udita chiaramente. Nelle preghiere eucaristiche I, II e III, dopo le parole "il nostro Papa N.", soggiunge: "e me indegno tuo servo"; invece nella preghiera eucaristica IV, dopo le parole: "del tuo servo e nostro Papa N." soggiunge: "di me indegno tuo servo". Se il calice e la pisside sono coperti, il diacono li scopre prima dell'epiclesi. Uno dei diaconi mette l'incenso nel turibolo e a ciascuna elevazione incensa l'ostia e il calice. I diaconi rimangono inginocchiati dall'epiclesi all'elevazione del calice. Dopo la consacrazione il diacono, secondo l'opportunità, copre nuovamente il calice e la pisside. Il vescovo dice: "Mistero della fede" e il popolo risponde con l'acclamazione.

 

156. Le intercessioni particolari, soprattutto nella celebrazione di alcuni riti sacramentali o di consacrazione o di benedizione, si facciano secondo la struttura di ciascuna preghiera eucaristica, usando i testi proposti dal messale o da altri libri liturgici.

 

157. Nella Messa crismale, prima che il vescovo dica: "Per Cristo nostro Signore, o Dio, crei e santifichi sempre", nella preghiera eucaristica I, o, prima che dica la dossologia "Per Cristo, con Cristo e in Cristo" nelle altre preghiere eucaristiche, fa la benedizione dell'olio degli infermi, come previsto dal Pontificale romano, a meno che non sia già stata fatta per motivi pastorali dopo la liturgia della Parola.

 

158. Durante la dossologia finale della preghiera eucaristica il diacono, stando di fianco al vescovo, tiene il calice elevato, mentre il vescovo alza la patena con l'ostia, finché il popolo non abbia acclamato con l'Amen. La dossologia finale della preghiera eucaristica è proclamata dal solo vescovo oppure da tutti i concelebranti assieme al vescovo.

 

159. Finita la dossologia il vescovo, a mani giunte, dice la monizione prima del Padre nostro, che poi tutti cantano o dicono; il vescovo, i concelebranti ed anche i fedeli tengono le mani allargate.

 

160. "Liberaci, o Signore, da tutti i mali..." è detto dal solo vescovo, a mani allargate. I presbiteri concelebranti proclamano assieme al popolo l'acclamazione finale: "Tuo è il regno, tua la potenza e la gloria nei secoli".

 

161. Quindi il vescovo dice l'orazione: "Signore Gesù Cristo che hai detto ai tuoi apostoli... ; al termine, rivolto verso il popolo, annuncia la pace dicendo: "La pace del Signore sia sempre con voi". Il popolo risponde: "E con il tuo spirito". Secondo l'opportunità uno dei diaconi invita alla pace, dicendo rivolto al popolo: "Scambiatevi un segno di pace". Il vescovo da la pace almeno ai due concelebranti a lui più vicini, poi al primo dei diaconi. Tutti si scambiano un segno di pace e di affetto secondo le consuetudini locali.

 

162. Il vescovo inizia la frazione del pane e alcuni fra i presbiteri concelebranti la proseguono; intanto si ripete l'Agnello di Dio quante volte è necessario per accompagnare la frazione del pane. Il vescovo mette nel calice un frammento e dice in segreto: "Il corpo e il sangue di Cristo, uniti in questo calice, siano per noi cibo di vita eterna".

 

163. Detta in segreto l'Orazione prima della comunione, il vescovo genuflette e prende la patena. I concelebranti si avvicinano, uno dopo l'altro, al vescovo, e fatta una genuflessione ricevono da lui con riverenza il corpo di Cristo e, tenendolo con la mano destra e con la mano sinistra posta sotto, ritornano al loro posto. Tuttavia essi possono anche restare al loro posto e ricevere lì il corpo di Cristo, anche distribuito dai diaconi. Quindi il vescovo prende l'ostia e, tenendola un poco elevata sopra la patena, rivolto verso il popolo dice: "Ecco l'Agnello di Dio.."  e prosegue con i concelebranti e il popolo dicendo: "O Signore, non sono degno...". Mentre il vescovo comunica al Corpo di Cristo, inizia il canto alla comunione.

 

164. Dopo aver assunto il Sangue del Signore, il vescovo consegna il calice ad uno dei diaconi e distribuisce la comunione ai diaconi e ai fedeli. I concelebranti si accostano all'altare per bere al calice, dopo che ciascuno ha comunicato i diaconi astergono il calice con il purificatoio.

 

165. Conclusa la distribuzione della comunione, uno dei diaconi consuma il vino consacrato che è avanzato, porta il calice alla credenza e lì, subito o dopo la Messa , lo purifica e lo riordina. Un altro diacono invece, o uno dei concelebranti, ripone nel tabernacolo le particole consacrate rimaste, e alla credenza purifica la patena o la pisside sopra il calice, prima che il calice sia purificato.

 

166. Dopo la comunione il vescovo torna alla cattedra, riprende lo zucchetto e, se fosse necessario, lava le mani. Mentre tutti stanno seduti si può osservare per un certo tempo il sacro silenzio o eseguire un cantico di lode o un salmo.

 

167. Poi il vescovo, in piedi alla cattedra mentre un ministro gli sorregge il libro, canta o dice: "Preghiamo" e, con le mani allargate, recita l'Orazione dopo la comunione, alla quale si può premettere un breve spazio di silenzio, se non è già stato osservato subito dopo la comunione. Alla fine dell'Orazione il popolo acclama: "Amen".

 

I RITI DI CONCLUSIONE

168. Terminata l'Orazione dopo la comunione, se sono necessari, si possono dare brevi avvisi al popolo.

 

169. Infine il vescovo riceve la mitra e, allargando le mani, saluta il popolo dicendo: "Il Signore sia con voi", cui il popolo risponde: "E con il tuo spirito". Uno dei diaconi può rivolgere l'invito: "Inchinatevi per la benedizione", o altro con simili parole. Il vescovo impartisce la benedizione solenne usando la formula adatta fra quelle presenti nel Messale, nel Pontificale o nel Rituale romano. Mentre proferisce le prime invocazioni o la preghiera, tiene le mani distese sopra il popolo, e tutti rispondono: "Amen". Quindi riceve il pastorale e dice: "Vi benedica Dio onnipotente", e, facendo tre volte il segno di croce sul popolo, aggiunge: "Padre e Figlio e Spirito santo". Il vescovo può impartire la benedizione anche con le formule proposte ai nn. 1120-1121 di questo cerimoniale. Quando, a norma di diritto, impartisce la benedizione apostolica, questa tiene il posto della benedizione solita; è annunciata dal diacono e per essa si usano le formule proprie.

 

170. Dopo che è stata impartita la benedizione, uno dei diaconi congeda il popolo dicendo: " La Messa è finita: andate in pace", e tutti rispondono: "Rendiamo grazie a Dio". Quindi il vescovo bacia l'altare e fa ad esso debita riverenza. Anche i concelebranti e tutti coloro che si trovano nel presbiterio salutano l'altare come all'inizio, e ritornano processionalmente in sacrestia nel medesimo ordine in cui erano venuti. Giunti in sacrestia, assieme al vescovo fanno riverenza alla croce. Quindi i concelebranti salutano il vescovo e accuratamente depongono le vesti al loro posto. Anche i ministranti salutano insieme il vescovo e depongono tutto ciò che hanno usato nella celebrazione appena compiuta; poi si tolgono le vesti. Tutti abbiano la massima attenzione ad osservare il silenzio per rispettare la comune concentrazione d'animo e la santità della casa di Dio.

 

 

 

Le vesti liturgiche del Diacono

Introduzione

Le vesti liturgiche, come tutti gli altri segni, nelle celebrazioni possono divenire elementi che oscurano e nascondono anziché rivelare, come è loro finalità; queste, se indossate dai vari ministri fuori da certi contesti particolari, per la loro preziosità, per la loro ricchezza di ricami, che ricordano la cultura dei secoli scorsi, potrebbero non essere richiamo alla gloria di Dio, ma soltanto ostentazione di umana vanità. Per contro però, la sciatteria, la trasandatezza, come la vanità, sono distruttive per ogni segno; pertanto la soluzione non sta nell’eliminazione dei segni, ma nel farne un uso equilibrato.Nella liturgia la veste ha sempre avuto un’importanza relativa, infatti nei primi quattro secoli della Chiesa non sembra che i ministri del culto cristiano indossassero vesti particolari durante le celebrazioni perché erano coscienti che l’essenziale non era nell’esteriorità, ma nell’essere interiormente rivestiti di Cristo. In quel tempo, infatti, c’era la consapevolezza di quel comune e nuovo sacerdozio che in forza del battesimo ci unisce al Corpo di Cristo, unico e vero sommo sacerdote della Nuova Alleanza (Eb 4,14), pertanto non c’era alcun bisogno di evidenziare la diversità dei ruoli, la distinzione era visibile per il luogo e il posto che i ministri sacri occupavano nell’assemblea e il ruolo che essi svolgevano [1].

Probabilmente, però, alla radice di queste decisioni c’era un atteggiamento polemico verso il sacerdozio dell’Antica Alleanza che in Israele aveva dato origine ad una casta che aveva fatto dei segni liturgici uno strumento di potere. Non possiamo non ricordare le invettive di Gesù contro quei farisei che allargano i loro filatteri e allungano le loro frange ... per essere ammirati dagli uomini (Mt 23,5). Papa Celestino I (422-432), scrivendo ai vescovi della Gallia del Sud, si lamentava che alcuni preti avevano cominciato ad indossare vanitosamente abiti speciali per celebrare l’Eucaristia: Dobbiamo distinguerci dagli altri per la dottrina, non per il vestito; per la condotta non per l’abito; per la purezza di mente, non per l’ornamento esteriore [2].

Pur nella consapevolezza che l’abito, come tutti i segni esteriori, è assai secondario nel culto cristiano, è necessario riconoscere che esso appartiene a quel complesso di importanti segni convenzionali che affondano le loro radici nei primordi dell’umana società. Anche se l’antico proverbio coniato dalla saggezza popolare canta che “l’abito non fa il monaco”, dobbiamo riconoscere che dal modo di vestire di una persona possiamo sempre in qualche modo individuarne il modo di pensare e lo stile di vita; questo spiega la conformità del vestire nei vari gruppi che si richiamano ad un’idea politica o ad un particolare settore sociale. E’ chiaro che l’abito lancia sempre un messaggio ed esprime qualcosa riguardo l’interiorità, il ruolo, la missione di una persona.Nella Sacra Scrittura, non senza ragione, l’abito diventa uno dei simboli più importanti per esprimere l’interiorità e la missione di alcuni protagonisti; per questo la Bibbia , dopo la rottura con Dio, descrive Adamo ed Eva nudi (Gn 3,7), spogliati della grazia divina che è l’unico vero abito che protegge la persona e le conferisce dignità. Così da quella prima immagine della Genesi, in tutta quanta la Scrittura la veste diventa simbolo della grazia di Dio. Il profeta Ezechiele paragona il popolo d’Israele, privo della grazia divina, ad una ragazza nuda e abbandonata nel deserto che viene da Dio lavata, unta con l’olio, ricoperta con abiti ricamati e adorna di gioielli (Ez 16). In queste immagini sono certamente preannunciati i riti della vestizione dell’abito bianco battesimale, e dell’abito nuziale per celebrare le nozze con Dio, che costituiscono la radice simbolica ad ogni altra veste liturgica o rituale, che diventa fondamentalmente segno di grazia ricevuta e dell’alleanza sancita per mezzo di Cristo. Cosicché, per contrasto, vestirsi di sacco e cospargersi di cenere diventa nella Chiesa, come nel mondo dell’Antica Alleanza, segno della consapevolezza del proprio peccato, infatti così si vestivano i pubblici penitenti nei primi secoli fino all’Alto Medioevo prima di ricevere la solenne riconciliazione con Dio.In ogni cultura la veste è stata sempre segno che esprime una realtà interiore o il ruolo che alcuni hanno nei confronti degli altri; da questo, che è un dato sociologico, nessuno degli esseri umani, che è inserito in rapporti sociali, è totalmente assente. Nel libro dei Numeri Mosè trasferisce i poteri sacerdotali da Aronne, suo fratello, al figlio di questi, Aleazaro, spogliando il primo e rivestendo il secondo con gli stessi abiti (Nm 20,28); Elia trasferisce la missione profetica ad Eliseo ricoprendolo col suo mantello (1Re 19,19).Ora, se Gesù relativizza queste forme di esteriorità, e ci esorta a curare l’interiorità, noi che viviamo nel regime dei segni e vediamo le realtà come in uno specchio (1Cor 13,12) - anche se non in modo assoluto - abbiamo bisogno in via ordinaria di questi segni per poter esprimere un culto pienamente umano, incarnato, capace di significare al massimo ciò che il rito intende comunicare. E’ quindi sotto questa luce che dobbiamo considerare le vesti liturgiche; esse non devono diventare né segni di potere, né segni di vanità, bensì segni di servizio. Purtroppo, come tutte le altre espressioni umane e come tutti gli altri segni liturgici, le vesti possono ridursi a segni di potere e non di servizio; Paolo VI decise di abbandonare la cerimonia dell’incoronazione con la tiara, in uso già dal XIV sec., perché questa era divenuta il segno del potere temporale. Ancora oggi le vesti liturgiche corrono il rischio di essere condizionate dalla vanità, nonostante l’invito di Paolo VI nel 1968 a semplificare i riti e le insegne pontificali che riguardano le celebrazioni dei vescovi. Lo scopo delle vesti liturgiche per i ministri ordinati, come tutti gli altri abiti rituali per i ministri istituiti e per i laici, compresi gli abiti di prima comunione e da sposa, hanno soprattutto uno scopo simbolico: esprimere una realtà interiore e un servizio ecclesiale. Non deve esserci spazio nella liturgia per l’ostentazione vanitosa; la semplicità e la chiarezza del simbolo non sono affatto in contrasto con la bellezza e il decoro; anzi i due aspetti si fondono magnificamente perché nella liturgia “il veramente bello e dignitoso è ciò che è profondamente vero”. Le vesti liturgiche non servono a riparare il corpo dal freddo, tanto meno per dare sfogo all’umana vanità, ma devono diventare segno di una realtà interiore, di una missione, di un servizio. Come tutti gli altri segni liturgici, anche le vesti hanno origini umane, così, per soddisfare qualche giustificato interrogativo è assai utile andare alle origini di alcune vesti liturgiche che continuamente vengono indossate nelle celebrazioni.

 

LE VESTI LITURGICHE: ORIGINE E SVILUPPO

L’origine delle vesti liturgiche non va ricercata, come alcuni liturgisti medioevali hanno asserito, nelle vesti sacre prescritte da Mosè e adottate dal Tempio, tuttal più la Chiesa può aver mutuato l’idea di un vestito più adatto alla dignità delle santa liturgia. Le nostre vesti liturgiche derivano dagli antichi abiti civili greco-romani. La stessa foggia di abito che veniva usato nella vita quotidiana serviva pure nella celebrazione dei Sacri Misteri. W. Strabone scrive: Primis temporibus communi indumento vestiti missas agebant,sicut et hactenus quidam orientalium facere perhibentur.

Non avendo testimonianze esplicite relative ai primi secoli della Chiesa, le uniche prove che ci restano provengono dalle pitture delle catacombe nelle quali i ministri che celebrano la santa liturgia sono rappresentati con abiti non diversi da quelli indossati nel quotidiano. Questa identità di costume civile e liturgico nella Chiesa si mantenne per parecchi secoli, anche dopo l’editto di Costantino.Nel 428 Celestino I scrive ad alcuni vescovi della Gallia per richiamarli di certe strane singolarità da essi introdotte nel loro abbigliamento, dichiarando che il ministro ordinato deve distinguersi dal popolo per doctrina, non veste: conversatione, non abitu: mentis puritate, non cultu. Agostino di Ippona (+430), attesta di se stesso che vestiva alla stregua di un qualunque diacono, essendogli sufficiente una tunica linea, come sottoveste, ed una sopravveste, il byrrus. Un affresco delle catacombe di san Callisto, eseguito durante il pontificato di Giovanni III (560-573), rappresenta i papi Sisto II e Cornelio vestiti con la dalmatica, la planeta e il pallio; dei tre indumenti liturgici solo il pallio è di origine prettamente ecclesiastica, mentre gli altri due erano ancora gli abiti civili degli honestiores al tempo di Gregorio Magno (+606); Giovanni Diacono, suo biografo, ci riferisce di aver visto nel monastero romano ad clivium Scauri i ritratti di Gregorio e di suo padre, il senatore Gordiano, effigiati nello stesso costume, cioè con dalmatica e planeta; solo il pallio distingueva il grande Gregorio.

E’ facile credere però che i ministri, per riverenza verso i Sacri Misteri, indossassero durante la celebrazione dell’Eucaristia, le vesti migliori, probabilmente riservate per tale funzione Teodoro di Mopsuestia ci fa sapere che “il pontefice, non portando l’abbigliamento abituale, né rivestito della veste che ordinariamente porta di sopra, si veste con un ornamento di lino delicato e splendente” [9], mentre i diaconi, durante la celebrazione eucaristica “hanno un abbigliamento che conviene alla realtà (invisibile), perché più sublime di loro è il loro abbigliamento esteriore: sulla spalla sinistra, gettano l’orarion che pende ugualmente da due lati...”.

L’orarion è del resto attestato dai canoni 22 e 23 del Concilio di Laodicea che ne proibivano l’uso ai chierici inferiori. Ambrogio di Milano suppone, addirittura, che i catecumeni identifichino facilmente il vescovo, i presbiteri e i diaconi: bisogna, dunque, concludere che anche a Milano è il costume che fa distinguere i ministri ordinati. Nei Canones, 201, 203, attribuiti ad Ippolito di Roma, si parla di diaconi e di preti, vestiti per la celebrazione Eucaristica di abiti più belli del consueto: induti vestimentis albis pulcrioribus, toto populo, potissimum autem splendidis...; etiam (i lettori) habeant festiva indumenta. Origene osserva che aliis indumentis sacerdos utitur dum est in sacrificiorum ministerio, et aliis cum procedit ad populum.

Palladio di Elenopoli, nella sua vita su Giovanni Crisostomo, scrive che, alla vigilia della sua morte, quando il grande Patriarca di Costantinopoli si comunicò presso l’oratorio di san Basilisco, deposte le vesti ordinarie, ne indossò delle candide.

Altrettanto attesta san Girolamo, rispondendo a certi eretici che asserivano che il decoro delle vesti era contrario a Dio: “Quae sunt ergo inimicitiae contra Deum, si tunicam habucro mundiorem? Si episcopus, presbyter, diaconus et reliquus ordo ecclesiasticus in administrazione sacrificiorum candida veste processerint?” Il Liber Pontificalis attribuisce a papa Stefano I (257-260) una ordinanza circa le vesti sacre: “Sacerdotes et levitas vestis sacratis in uso quotidiano non uti, nisi in ecclesia”.

Nel VI sec., quando venne ampliato il Liber Pontificalis c’erano già delle vesti esclusivamente riservate per le celebrazioni liturgiche, le vestimenta officialia, che non avevano forme particolari rispetto alle vesti civili, ma erano utilizzate solo per le azioni liturgiche. Nel’889 Ricolfo di Saisson vietava ai sacerdoti di celebrare i sacri misteri con la stessa alba che indossavano abitualmente nella vita quotidiana.

Con l’introduzione dei costumi barbarici in occidente, sullo scorcio del VI sec., comincia a delinearsi un cambiamento nella moda degli abiti civili che condurrà ad una inevitabile differenziazione tra le vesti civili e quelle liturgiche. L’alba che, fin dal III sec. era divenuta sottoveste comune, cede progressivamente il posto ad una tunica assai più corta detta sagum, e la tradizionale penula, chiusa da ogni parte, viene sostituita da un largo mantello aperto sul davanti. Erano le nuove mode portate dai barbari. Una testimonianza di quanto detto la troviamo nei mosaici del VI sec. di san Vitale di Ravenna, dove è raffigurato l’imperatore Giustiniano con la sua corte e l’arcivescovo Massimiano, vestito di casula e pallio, con due diaconi che indossano la dalmatica, mentre l’abito dei funzionari imperiali è già diverso: essi vestivano la clamide che, in origine, era il mantello che si allacciava sulle spalle e che poi alla corte di Bisanzio era divenuta una veste solenne di parata. Di fronte a queste innovazioni la Chiesa insiste energicamente presso i sacri ministri, affinché mantenessero inalterate le vesti antiche: non sagis laicorum more, ammonisce il Sinodo di Regensburg del 742, sed casulis utantur, ritu servorum Dei. Poco più di un secolo e mezzo prima il concilio di Macon nel 581, al can. 5 aveva decretato: Ut nec ullus clericus sagum aut vestimentum vel calceamenta secularia, nisi quae religionem deceant, induere praesumat.All’epoca dei Carolingi le vesti liturgiche ebbero un ulteriore sviluppo, tanto da venire fissate definitivamente con competenza e nella forma che hanno conservato per tanti secoli. L’insigne liturgista J. Braun ci riferisce che “la pianeta, la stola e la mappula non si portano più dagli accoliti, né la pianeta e la stola dai suddiaconi; inoltre si forma per il suddiacono uno speciale vestito di funzione, consistente in una tunicella simile alla dalmatica, come vestito esteriore, e nel manipolo, come insegna dell’ordine suddiaconale: più tardi ancora si introducono il piviale e la cotta; finalmente in modo tutto speciale si dà compimento all’abito del vescovo. Poiché, non solo i calzari liturgici diventano allora privilegio del vescovo, ma il paramento pontificale si arricchisce di parecchi nuovi capi, il succintorio, i guanti e la mitra, a cui si aggiunge in Germania anche il razionale; può parer strano come in questo periodo fu in modo particolare il vestiario episcopale che più di tutti si perfezionò. Tuttavia ciò si capisce subito, se si considera come fin dai tempi Carolingi crebbe dappertutto la dignità dei vescovi e che tale accrescimento doveva avere come naturale conseguenza una sensibile espressione corrispondente in forma di un più ricco vestiario” .

Nel XII sec., si ebbero le ultime fasi dello sviluppo delle vesti liturgiche con la definizione del canone dei colori e con la crescente importanza che viene data alla cotta, in sostituzione del camice e al piviale, come vesti liturgiche dei chierici inferiori. Dopo il XIII sec., la tendenza ad accorciare sensibilmente le antiche vesti, come la dalmatica e, soprattutto la casula, le avvicina man mano alla forma odierna. A questo processo riduttivo contribuì certamente la preziosità delle stoffe impiegate nella confezione dell’abito liturgico. Dopo l’XI sec. cattedrali, abbazie, comunità claustrali andavano a gara per procurarsi dei sontuosi paramenti nei quali la ricchezza del tessuto e l’arte del ricamo nella sua più alta espressione di pittura ad ago rendevano più solenni le azioni liturgiche.Il movimento liturgico del XX sec. ha innanzitutto cercato di ridonare alle vesti liturgiche una forma più conforme alle loro origini; ma s’imponeva una semplificazione, auspicata dal Concilio Ecumenico Vaticano II con la Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium del 4 dicembre 1963: all’art. 128 si richiede che si faccia in modo che le norme canoniche aiutino la dignità, la sicurezza, la funzionalità delle varie suppellettili. Tale riforma si è realizzata successivamente con l’Istruzione Pontificales ritu del 21 marzo 1967 e con l’Institutio generalis missalis Romani: “Nella Chiesa, Corpo mistico di Cristo, non tutte le membra svolgono la stessa mansione. Questa diversità di ministeri nel compimento del culto sacro, si manifesta all’esterno con la diversità delle vesti sacre, che perciò devono essere segno dell’ufficio proprio di ogni ministro. Conviene però che tali vesti contribuiscano anche al decoro dell’azione sacra” (PNMR 297); “La veste sacra comune a tutti i ministri di qualsiasi grado è il camice (alba), stretto ai fianchi dal cingolo, a meno che non sia fatto in modo da aderire al corpo anche senza cingolo. Se il camice non copre pienamente, intorno al collo, l’abito comune, prima di indossarlo, si deve mettere l’amitto. Il camice può essere sostituito dalla cotta non però quando si indossano la casula o la dalmatica, né quando si usa la stola al posto della casula e della dalmatica” (PNMR 298). “Veste propria del diacono è la dalmatica, da indossarsi sopra il camice e la stola” (PNMR 300).

“I ministri di grado inferiore al diacono possono indossare il camice o un’altra veste legittimamente approvata nella loro regione” (PNMR 301). “... il diacono indossa la stola in modo che dalla spalla sinistra passi trasversalmente sul petto e venga poi raccolta e fissata sul fianco destro” (PNMR 302).

 

L’AMITTO

L’amitto, che nell’uso romano odierno i ministri sacri mettono sulle spalle ed attorno al collo prima di indossare il camice, e che appartiene, insieme a quest’ultimo, al cingolo e alla cotta, al gruppo delle sottovesti liturgiche, non ebbe questo nome prima del IX sec. Gli antichi Ordines romani dall’VIII al XII sec., lo chiamavano anagolaium o anagolagium, cioè mantelletto e pensavano che derivasse dallo scapolare col quale i monaci stringevano la tunica intorno al corpo per avere libero l’esercizio delle braccia; più tardi, specialmente in Germania, dopo l’XI sec. ebbe anche il nome di “umerale”.

 

IL CAMICE

La tunica bianca, entrata nell’uso liturgico, è la prima veste “comune a tutti i ministri di qualsiasi grado”; non poteva essere diversamente in quanto il camice deriva direttamente dalla tunica, cioè dall’abito inferiore comune a tutti gli uomini dell’antico impero romano. Era generalmente di filo bianco o comunque di colore chiaro, ornata spesso da due semplici galloni purpurei che scendevano paralleli sul davanti e sul dorso; in casa si lasciava sciolta, in pubblico veniva stretta alla vita con una cintura in modo che restasse un po' sollevata sul davanti per non ostacolare il passo.Nel 398 il concilio di Cartagine stabilì che il diacono indossasse la tunica solamente nel tempo dell’oblazione o delle lezioni. Questo indumento inferiore, che veniva indossato pure subito dopo l’immersione battesimale, assumeva verso la fine del IV sec. un significato altamente simbolico, come appare ancora oggi nel rito battesimale.Papa Leone IV nell’830 prescrisse per le funzioni sacre un camice diverso dall’ordinario; così quando i civili cessarono di portare la tunica, questa fu conservata nella liturgia e divenne indumento sacro. E’ questo l’indumento che, anche quando vennero cambiate le vesti liturgiche, per rispetto alla tradizione, il ministro sacro continuò ad indossare, diventando così sempre più segno distintivo e simbolico all’interno del culto.Nell’XI sec., in un contesto molto sensibile all’allegoria e alla rappresentazione, la tunica, chiamata anche alba proprio per il suo colore bianco, cominciò ad essere sempre più ornata di ricami figurativi. Nell’Ordo Romanus I la tunica di lino è già certamente una veste liturgica; a partire dai secoli XII-XIII il camice è riservato ai ministri ordinati in sacris. Dopo il XV sec., col diffondersi dell’industria del merletto, il camice (dal latino camisia, termine usato per indicare l’alba) perde il suo aspetto originario e si trasforma in un prezioso indumento di pizzo che, ovviamente, non ha alcun richiamo battesimale.Quasi tutte le considerazioni dei liturgisti medievali sono concordi nell’affermare che il camice è il simbolo della purezza; il candore di questa veste rappresenta, dunque, Cristo e la sua Trasfigurazione sul monte Tabor. Le preghiere medievali - che venivano recitate quando si indossava il camice - lo presentano “ora come la veste di salute corazza di fortezza, ora come il simbolo della santa letizia e della rettitudine soprannaturale, cioè dello stato di grazia”.

La preghiera che il ministro sacro recitava, e che risale al X sec. ricorda proprio la purezza del cuore: “Purificami, o Signore, e monda il mio cuore, affinché purificato nel sangue dell’Agnello io meriti di godere l’allegrezza sempiterna”. Oggi “La veste sacra comune a tutti i ministri di qualsiasi grado è il camice, stretto ai fianchi dal cingolo, a meno che non sia fatto in modo da aderire al corpo anche senza cingolo. Se il camice non copre pienamente attorno al corpo l’abito comune, prima di indossarlo si deve mettere l’amitto” (PNMR 298).

 

IL CINGOLO

Presso i Romani il cingulum era un accessorio quasi indispensabile per la tunica, quindi dall’uso profano di una cintura per tenere fissa intorno ai fianchi la tunica, è sorto l’indumento sacro in forma di cordone, con due fiocchi all’estremità che serve a stringere il camice. I primi accenni al cingolo si hanno nella lettera di papa Celestino I nel 430 ai vescovi di Narbona e Vienna nelle Gallie; secondo quanto ci fa sapere san Germano di Parigi, nella chiesa gallicana non veniva usato dai chierici minori. Poi i monaci, memori della parola del Signore: “Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà” (Is 11,5), ritennero incompatibile per il loro stato la tunica discinta, e concorsero così a generalizzare l’uso del cingolo. Dalla semplice cintura di cuoio o di corda dei monaci si passò nella liturgia alla fascia di seta riccamente ornata con motivi ornamentali di fiori o di animali, talvolta con applicazioni di pietre preziose e di ricami con lamine in oro argento, specialmente nel medioevo. Di cingoli-cordoni non si parla che assai raramente, essi divennero comuni soltanto dopo il XV sec., successivamente si passò alla semplicità primitiva e, eliminata la fascia, si riprese il cordone. La Chiesa non ha determinato né il colore né la forma del cingolo; se ne possono fare quindi di seta, di lino, di lana, di cotone; il loro colore può essere sempre bianco oppure seguire quello della liturgia. Vario ne è il significato simbolico, però quasi tutti gli studiosi di liturgia convengono nel ritenerlo il simbolo della castità, come indica la preghiera liturgica che il ministro sacro recitava quando lo cingeva: “Cingimi, o Signore, col cingolo della fede, e i miei lombi con la virtù della castità, e distruggi in essi ogni appetito carnale, perché resti in me il vigore di tutta la castità”.

 

LA COTTA

Nel XVI secolo, con l’avvento e la diffusione dell’abito talare, come veste quotidiana dei ministri ordinati, si diffonde l’uso di quella “tunica” accorciata che è la cotta. Le origini di questa veste liturgica bianca, “che simboleggia la castità e ammonisce chi la porta a tenere ogni giorno una condotta senza macchia”, vanno cercate nei Paesi nordici, dove chierici e monaci usavano una mantella di pelliccia per ripararsi dal freddo durante le celebrazioni; da qui il termine super-pelliceo che troviamo nei vecchi testi prima del Concilio Vaticano II per indicare proprio il “camice corto”. Questo spiega perché dopo la riforma liturgica postconciliare l’uso della cotta sia assai ridotto a favore del camice. La cotta può sostituire il camice, “non però quando si indossano la casula o la dalmatica, né quando si usa la stola al posto della casula e della dalmatica” (PNMR 298).

 

LA STOLA

La stola è sicuramente l’abbigliamento cultuale che attira l’attenzione dei fedeli per la diversità di come si indossa; infatti per il vescovo e i presbiteri gira attorno al collo e scende davanti, diritta mentre per i diaconi poggia sulla spalla sinistra e, passando trasversalmente davanti al petto, si raccoglie sul fianco destro (PNMR 302). Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un elemento che faceva parte dell’antico e comune abbigliamento e che solo successivamente ha assunto una dimensione simbolica all’interno del culto cristiano. Le origini della stola non sono molto chiare, tanto che il simbolismo medievale al riguardo si è sviluppato con particolare fantasia.

Questa insegna liturgica, riservata ai ministri ordinati, è chiamata stola verso la fine del VII secolo, prima si chiamava orarium (dal latino os = bocca). In origine si trattava infatti di un panno fine che le persone di un certo rango portavano al collo come una sciarpa per tergersi la bocca e asciugarsi il sudore dal volto, quindi si può immaginare per quali motivi pratici sia entrato nel culto liturgico. Comunque sia ben presto assunse un significato diverso da quello originale, soprattutto a causa del suo nome interpretato in relazione alla preghiera (orare = pregare) e alla predicazione. Questo spiega perché la stola diventa insegna riservata ai ministri ordinati e quindi qualificati per la predicazione. Il diverso modo di portare la stola da parte dei diaconi sembra essere stato determinato dalla più antica prassi comune di portare generalmente questo sudarium sulla spalla sinistra. In Oriente tale oggetto venne ben presto interpretato per i diaconi come segno del loro servizio. Così infatti in un testo di Isidoro da Pelusio (+440) si legge che la stola “con la quale i diaconi fanno il loro servizio nei sacri ministeri, rammenta l’umiltà del Signore quando lavò e asciugò i piedi ai suoi discepoli”. Al di là delle sue origini non sempre chiare, è un fatto che la stola sia diventata l’insegna qualificante dei ministri ordinati al punto che le norme per la celebrazione eucaristica recitano che la stola è sempre necessaria sia per il sacerdote che per il diacono (Cfr. PNMR 81).

 

LA DALMATICA

La dalmatica è una veste originaria della Dalmazia, dal II sec. entra nell’uso dei Romani d’ogni parte dell’Impero, soprattutto nell’Oriente e nell’Africa. Questo abito di lusso, riservato agli imperatori, ai nobili e alle classi più elevate dei romani, che era tessuto di lino o di lana, spesso anche di seta bianca, ornato con due strisce, chiamate claves, più o meno lunghe secondo la dignità della persona che l’indossava, e da dischi o segmenta, ambedue di colore porpora, consisteva in una lunga veste che arrivava fino a sotto i ginocchi con larghe maniche scendenti fino al polso, si indossava sopra la tunica aderente al corpo; su di essa poteva portarsi anche il mantello. Nel III sec. la veste era portata dai vescovi anche nella vita civile; infatti sappiamo dagli Atti del Martirio di Cipriano che il santo Martire, giunto sul luogo dell’esecuzione, si spogliò della lacerna, poi della dalmatica, rimanendo con la linea”; ci si presenta, però, la prima volta come veste liturgica in un affresco del III sec. nelle catacombe di Priscilla, rappresentante la consacrazione di una vergine compiuta da un vescovo (forse il Papa stesso) vestito di dalmatica e penula. Nel IV sec. papa Silvestro (314 - 335), secondo il Liber Pontificalis, concesse ai diaconi romani l’uso della dalmatica come distintivo d’onore, per distinguerli dal clero a motivo degli speciali rapporti che essi avevano col Papa.

La notizia è confermata dall’autore romano delle Quaestiones Veteris et Novi Testamenti, che, verso l’anno 370, scrive: Hodie diaconi dalmaticis induuntur sicut episcopi; ciò prova che la Chiesa romana riteneva l’uso della dalmatica come un privilegio suo proprio e che soltanto il Papa potesse conferirla. Dal V sec., circa, è stata usata come veste liturgica , come ci testimoniano le numerose pitture delle catacombe, dei mosaici e degli affreschi dell’alto medioevo, la dalmatica aveva l’aspetto di una lunga tunica bianca adorna, lungo i bordi del collo, del fondo e delle maniche con fregi e ricami. Del suo uso antico ci parlano gli scrittori, però non ci è dato riconoscere con precisione di chi fu propria. L’opinione più comune è che la dalmatica fosse veste propria dei sommi pontefici e da essi concessa ai diaconi di Roma solamente per le solennità. Come si vede nei mosaici nel V sec. la dalmatica si portava a Milano e nel VI sec. a Ravenna. Il papa Simmaco (498-514) la concesse ai diaconi di Arles e nel 599 san Gregorio Magno (590-604) all’arcidiacono della chiesa di Gap e dispose inoltre che venisse usata nella Liturgia delle Ore; Stefano II (725-757) accorda a Furaldo, abate di san Dionigi di Parigi di essere assistito alla messa da sei diaconi vestiti di dalmatica. I vescovi il Giovedì Santo, durante il rito della lavanda dei piedi, depongono la casula e rimangono in dalmatica, cioè nell’abito che è segno di servizio e di carità. Con lo stabilirsi della liturgia romana in Gallia al tempo dei Carolingi, la dalmatica diventa abbastanza comune, quantunque i Papi continuassero a concederla come privilegio. Walfrido Strabone (+849) attesta che al suo tempo la portavano, non solo i vescovi e i diaconi, ma anche i semplici sacerdoti sotto la casula. A questo abuso però la Santa Sede resistette, ma prima ancora del XII sec., la concesse ai Cardinali preti, agli abati e ad altri prelati. Dal XII sec. la dalmatica è de iure la veste propria dei diaconi che la ricevono nell’ordinazione e la portano come veste superiore e dei vescovi e di alcuni prelati che la indossano sotto la pianeta. Nello stesso periodo la dalmatica seguì il colore degli altri paramenti sacri e nello stesso tempo scomparvero i clavi che non avevano più senso, quando fu abbandonato l’uso esclusivo del bianco. In alcune diocesi fuori Italia, già dal IX sec. si cominciò ad accorciare la dalmatica fino ai ginocchi, comprese le maniche fino al gomito. Più tardi, per la speditezza dei movimenti, la dalmatica fu aperta sui fianchi e ampliata nella parte inferiore lasciando tuttavia le due parti congiunte fino all’anca. Nel sec. XVI, per poterla più facilmente indossare, fu un po’ aperta sopra le spalle e, per chiudere i due lati, furono introdotti dei cordoni con i fiocchi, spesso duplicati o triplicati, pendenti sul dorso. Le antiche dalmatiche erano originariamente fatte di lana o di lino, più tardi vennero usate quelle di seta. Il colore si mantenne bianco per lungo tempo, forse fino a tutto l’XI sec.; bianca è la dalmatica che indossa il diacono in una miniatura del Tropario di Prum del sec. X. Ugone di san Vittore (+1141) è il primo a far menzione di una dalmatica vescovile color giacinto; però sul fondo chiaro della veste, conforme all’antica moda profana, si usò da principio applicare due clavi purpurei, che a modo di fascia scendevano paralleli davanti e di dietro per tutta la lunghezza della dalmatica e giravano attorno alle maniche. Rabano Mauro così la descrive: Est vestis in modum crucis facta et passionis Domini indicium est. Habet quoque et purpureos tramites a summo usque ad ima, ante ac retro descentes, necnon, per utramque manicam. I rossi clavi, attestati ancora da Innocenzo III (+1216), scomparvero quando la dalmatica partecipò ai vari colori della casula, ma furono sostituiti con fasce ricamate e, dopo il sec. XV, con altre bande orizzontali applicate in vario numero. I fiocchi, che si appendono alla dalmatica sulle spalle, non derivano dalle frange che, già al tempo di Amalario, ne ornavano l’orlo inferiore, ma sono probabilmente uno sviluppo ornamentale dei legacci con cui si chiudeva l’apertura del capo. Oggi, nelle celebrazioni solenni, la “veste propria del diacono è la dalmatica, da indossarsi sopra il camice e la stola” (PNMR 300).

 

I COLORI DELLE VESTI LITURGICHE

La varietà dei colori liturgici era conosciuta già nell’A.T., con la differenza che mentre le vesti liturgiche della Nuova Alleanza hanno ciascuno un colore ben definito, presso gli Ebrei i colori, “oro, porpora viola e porpora rossa, scarlatto e bisso” (Es 28,5), erano riuniti insieme per formare le sacre vesti. Nei primi secoli cristiani non si trova traccia di colori liturgici propriamente detti infatti i mosaici delle antiche basiliche mostrano che l’artista ha assegnato alle vesti dei ministri colori a suo piacimento. Nella basilica di sant’Ambrogio in Milano, che risale al V sec., l’artista ha effigiato in un mosaico l grande Vescovo vestito con una penula color giallastro, mentre nei mosaici di san Vitale di Ravenna, del VI sec., le vesti sacre sono di color porpora. Mentre i riti orientali non attribuiscono importanza al colore delle vesti liturgiche, la Chiesa d’Occidente, invece, ha ritenuto che l’uso dei diversi colori contribuisse ad esprimere, anche con l’uso di mezzi esterni, la caratteristica particolare dei misteri della fede che vengono celebrati, e il senso della vita cristiana in cammino lungo il corso dell’anno liturgico (PNMR 307). Se le vesti liturgiche hanno un valore simbolico quasi secondario, a maggior ragione hanno un valore assai relativo i colori sia delle vesti, sia di eventuali altri addobbi. Però l’uso di questi colori suscita degli interrogativi che hanno bisogno di risposte serie e precise. Dopo la riforma del Concilio Vaticano II, niente in liturgia deve risultare superfluo o semplicemente decorativo; non è una questione di forme esteriori, ma è un pericolo per la serietà del culto cristiano e di conseguenza per lo stesso messaggio evangelico. Il cristianesimo è caratterizzato da una profonda dimensione storica, da un profondo radicamento nella vita dell’uomo: il Dio d’Israele incontra e salva l’uomo nella storia. Il mondo che Lui ha creato e la storia che in esso si svolge è il luogo privilegiato dell’incontro con il Totalmente Altro. E in questo mondo così complesso e diversificato ci sono anche i colori che, secondo le culture, diventano linguaggio umano per esprimere e comunicare sentimenti interiori e valori comuni: nel mondo non c’è cultura che non abbia fatto dei colori una sorta di linguaggio. Il vocabolario biblico, e in modo particolare quello profetico, spesso si esprimono richiamando i vari colori. Il profeta Isaia a proposito della gravità del peccato scrive: Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve (1,18); mentre nell’Apocalisse di san Giovanni si legge che il sole divenne nero come un sacco di crine (6,12). Nella liturgia i colori, in quanto simboli, entrano assai tardi, questo dimostra che, ancor più delle vesti, sono elementi molto secondari. Tutto questo però non deve far credere che sono elementi insignificanti e inutili. Nei rapporti umani un mazzo di fiori può risultare “inutile”, ma non insignificante. Per oltre sette secoli i colori degli abiti non hanno avuto alcuna particolare importanza nel culto cristiano; certamente predominava il bianco, perché nella cultura mediterranea rappresentava il colore della festa. Da questo uso diffuso, il passo verso l’interpretazione simbolica di questo colore, a cominciare dalla veste bianca battesimale, è stato breve. Nella catechesi mistagogica di Ambrogio di Milano ai neo-battezzati si legge: Hai ricevuto le vesti candide per indicare che ti sei spogliato dell’involucro dei peccati, hai indossato le pure vesti dell’innocenza di cui il profeta ha detto: Aspergimi con l’issopo, e sarò mondato; mi laverai, e sarò più bianco della neve. Per quanto riguarda le vesti dei ministri sacri le testimonianze fino all’VIII sec. sono alquanto diversificate, mentre si impongono sempre di più gli abiti speciali per le celebrazioni, nessuna norma ne regolava il colore lasciando ai ministri la più ampia libertà. La preoccupazione crescente però riguarda la preziosità delle vesti liturgiche soprattutto in Oriente, sotto l’influsso della corte imperiale di Bisanzio. La prima documentazione certa dell’uso dei colori liturgici legati a precise celebrazioni ci viene dall’Ordo Romanus XXI della seconda metà dell’VIII sec., dove per le Rogazioni del 25 aprile si indossavano vesti scure, mentre per il 2 febbraio, allora festa della Purificazione di Maria, era previsto l’uso del nero. Nel Medioevo il linguaggio dei colori si accentua. Ciò che non viene più compreso attraverso la lingua latina e il significato dei riti viene in qualche modo cercato attraverso gli occhi; non è un caso che in questo periodo nascono le sacre rappresentazioni in parallelo con la liturgia. Il primo a trattare con una certa ampiezza dei colori liturgici è stato papa Innocenzo III (+1216) nel suo De sacro altaris Mysterio. Egli conosce i cinque colori in uso nella chiesa di Roma: il bianco, il rosso, il verde, il nero e il viola, che è stato sempre considerato affine al nero. Il papa Pio V (1570), nelle rubriche del Messale da lui riformato, ed in uso fino alla riforma liturgica del 1963, ammise i cinque colori voluti da Innocenzo III. Un sesto colore, il rosaceo, secondo le rubriche del Cerimoniale dei Vescovi, sostituiva il viola nella III Domenica di Avvento (Gaudete) e nella IV di Quaresima (Laetare) già dal XIII sec.

Nella Chiesa d’Oriente i paramenti di colore rosso venivano indossate nelle ufficiature funebri, da qui è derivato l’uso di vestire la salma del Pontefice defunto e di celebrare le esequie papali indossando casule e dalmatiche di colore rosso. La mentalità giuridica instaurata negli ultimi secoli aveva portato anche in ambito liturgico, a far uso dei paramenti e dei colori in modo strettamente rubricale. Il Concilio Vaticano II non ha voluto sopprimere la normativa riguardante i colori, però ha eliminato il nero, anche se resta opzionale nella messa dei defunti, in quanto nella nostra cultura certamente non esprime quella speranza cristiana che è presente di fronte al mistero della morte. Il Concilio, mantenendo tutti i colori nei modi e nei tempi tradizionali, li ha considerati nel più vasto contesto di quei segni che devono essere chiari, adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno di molte spiegazioni. Proprio per questo le Conferenze Episcopali possono stabilire e proporre alla Sede Apostolica adattamenti dei colori liturgici secondo l’uso, la tradizione e la cultura dei singoli popoli (Cfr. PNMR 308). Le norme attuali del rito romano prevedono che:

a) Il colore bianco si usa negli Uffici e nelle Messe del Tempo Pasquale e del Tempo Natalizio. Inoltre: nelle feste delle “memorie” del Signore, escluse quelle della Passione; nelle feste e nelle “memorie” della beata Vergine, degli angeli, dei santi non martiri, nella festa dei Santi (1° novembre), di san Giovanni Battista (24 giugno), di san Giovanni Evangelista (27 dicembre), della Cattedra di san Pietro (22 febbraio) e della Conversione di san Paolo (25 gennaio).

b) Il colore rosso si usa nella Domenica di Passione (o delle Palme) e nel Venerdì Santo, nella Domenica di Pentecoste, nelle celebrazioni della Passione del Signore, nella festa natalizia degli Apostoli e degli Evangelisti e nelle celebrazioni dei santi Martiri.

c) Il colore verde si usa negli Uffici e nelle Messe del Tempo Ordinario.

d) Il colore viola si usa nel tempo dell’Avvento e di Quaresima. Si può usare negli Uffici e nelle Messe per i defunti.

e) Il colore nero si può usare nelle Messe per i defunti.

f) Il colore rosaceo si può usare nelle domeniche “Gaudete” (III di Avvento) e “Laetare” (IV di Quaresima) (PNMR 308). Ciò che conta veramente non è l’osservanza materiale di questi colori, tanto che le norme stesse prevedono che “nei giorni più solenni si possono usare vesti sacre più preziose, anche se non sono del colore del giorno” (PNMR 309), ma il messaggio che comunicano nelle diverse celebrazioni che può essere di festa, di speranza, di solidarietà nel dolore, di rinuncia, di conversione. Questi colori diventano importanti e significativi solamente se sono accompagnati da una Comunità che si sforza di vivere il Vangelo e che partecipa alla celebrazione in sincera comunione di spirito. Se così non fosse, i colori liturgici sarebbero solamente stranezza, folklore o semplicemente vanità.

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